Commento alle letture: XXV DOMENICA DEL T.O. -B- (23-09-2012) a cura di p. Luigi CONSONNI missionario comboniano. Dal sito: "Vento che muove...". Il sito é gestito da Sebastiano Sanna Amministratore.
Per coloro che fanno opera di Pace viene seminato nella Pace un frutto di giustizia.
Per coloro che fanno opera di Pace viene seminato nella Pace un frutto di giustizia.
Commento alle letture: XXV DOMENICA DEL T.O. -B- (23-09-2012)
[Dissero gli empi:] «Tendiamo insidie al
giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci
rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni
contro l’educazione ricevuta.
Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine.
Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari.
Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione. Condanniamolo a una morte infamante, perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».
Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari.
Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione. Condanniamolo a una morte infamante, perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».
1a lettura (Sap 2,12.17-20)
Tutto
il capitolo descrive il contrasto fra il giusto, che teme Dio e si
comporta in sintonia con la Legge, e l’empio, il suo contrario. Non è un
contrasto sulle idee di Dio, ma sulla condotta, sul comportamento. E’
quest’ultimo che determina la condizione di credente o di ateo, come
diremmo oggi. È un testo di grande attualità, scritto cinquanta anni
prima della nascita di Gesù, dalla sapienza ebraica nella città di
Alessandria d’Egitto.
Viene
descritta, con precisione, la distorta e perversa condotta dell’empio -
l’ateo non teorico ma pratico – presentato dalla frase: “Dissero gli empi”. Essi sono infastiditi e incomodati dalla condotta del giusto. Non sono questioni di idee, ma del comportamento del giusto che
“si oppone alle nostre azioni”, incluso, evidentemente, il non
associarsi a loro, anzi mantenersi da essi una grande distanza da loro.
Sono due mondi vicini e contrapposti.
Gli
empi hanno scelto di essere tali; infatti, pur avendo ricevuto la
stessa educazione dei giusti, preferirono un altro stile di vita. Il
comportamento, lo stile di vita del giusto è un continuo richiamo
all’educazione che gli empi hanno rinnegato e rimosso e che vorrebbero
non affiorasse mai.
Perciò si sentono molto infastiditi “ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta”, anche perché il comportamento giusto, accompagnato dal silenzio, è più provocante della parola e del biasimo.
Lontani
dal voler cambiare vita, per reazione sorge in loro il sentimento di
avversione. Il contrasto raggiunge un punto tale da essere avvertito
come una seria minaccia alle loro convinzioni. Percependo che
convinzioni e condotta sono seriamente sono messe sotto scacco, ecco
sorgere il desiderio di sopprimere il giusto.
E’ quello che quest’ultimo percepisce nei suoi confronti da parte degli empi: “Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti (…) Condanniamolo a una morte infamante”. L’intento
è di distruggerlo fisicamente e moralmente, in modo da sopprimere ogni
presenza scomoda e infangarne per sempre la memoria.
A
ciò si aggiunge il sarcasmo nel mettere alla prova il giusto, per
verificare la consistenza e la bontà dei comportamenti, quali la mitezza
e la sopportazione: “conoscere la sua mitezza e saggiare il suoi spirito di sopportazione”, considerati come caratteristica della vita del giusto.
Più
ancora. L’empio vuole verificare se la condizione di rettitudine del
giusto sarà avallata dall’intervento di Dio, per il presunto rapporto di
figlio di Dio: “Vediamo se le
sue parole sono vere (…). Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli
verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari (…)
perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà”.
L’intervento
diretto di Dio è ritenuto come prova definitiva e irrefutabile della
condizione che il giusto presume di ritenere. Solo a questa condizione
il giusto sarà accettato come tale e quindi meritevole di fiducia. E’,
infatti, inconcepibile che Dio non intervenga a favore del giusto e, se
non dovesse farlo, questo costituirebbe la prova dell’inganno del
giusto.
Nell’empio
si configura simultaneamente, per l’azione e la presenza del giusto, la
coscienza della propria condizione di trasgressore nei confronti della
legge, e quella di burlarsi della condizione del giusto sfidando
l’intervento di Dio, rispetto al quale non ha particolare interesse se
non la curiosità di chi vuol prendersi gioco di tutto. La figura del
giusto coincide perfettamente con quella di Gesù, così come le reazioni
di rifiuto che si espressero contro di lui.
I
due mondi contrastanti - quello dell’empio e del giusto - saranno in
perenne e inconciliabile opposizione e delimitano l’ambito dello
svolgimento dell’azione pastorale. Il motivo del conflitto e gli
atteggiamenti dell’uno e dell’altro sono ripresi dalla seconda lettura.
Fratelli
miei, dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta
di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è
pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni
frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene
seminato nella pace un frutto di giustizia.
Da
dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono
forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete
pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e
non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non
chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare
cioè le vostre passioni.
2a lettura (Gc 3,16-4,3)
La
condizione di empio e di giusto non si manifesta solo tra chi è
partecipe della chiesa e chi ne sta fuori, anzi costituisce un criterio
di valutazione poco attendibile; infatti vi sono persone che non fanno
parte della comunità ecclesiale ma adottano una condotta integerrima e
generosa per la bontà e l’attenzione ai bisogni altrui, superiore a
quella di chi la frequenta regolarmente.
L’empio
e il giusto si trovano nella stessa comunità. In essa non mancano
tensioni e liti disdicevoli. Allora l’apostolo chiede: “Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi?” e asserisce, in forma interrogativa,
“Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra alle vostre membra?”.
Giacomo
individua la causa principale nelle passioni che hanno come finalità il
possesso e che generano l’empietà. Non tutte le passioni hanno come
meta il possesso, ma quelle che sono finalizzate a esso hanno una grande
forza distruttiva e portano in se stesse disfacimento e morte.
Ecco il quadro che ne esce: “Siete
pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi
e non riuscite a ottenere, combattete e fate guerra!”. La ricerca
del possesso fa perdere la dimensione del dono, e quindi il rapporto di
gratuità e di libertà con quello che è dato. Il possesso fa sì che la
persona, aggrappandosi a ciò che desidera, lo svuota della sua bellezza e
fascino; e di nuovo si ripresenta l’insoddisfazione, che suscita un
nuovo desiderio di avere altro e ancora di più.
E’
sulla scia, per fare un esempio, del bambino che, ricevuto il dono,
dopo averne preso possesso lo abbandona, lo dimentica: è come se non
l’avesse mai ricevuto. D’altro lato la frustrazione del possesso porta a
sentimenti di profonda avversione, fino a lotte fratricide e guerre.
Infatti, l’invidia consiste nel non possedere quello che altri hanno
mentre, al contrario, la gelosia è la paura di perdere quello che si
possiede.
In
effetti, tutto l’agire di Cristo - e di Dio - nei nostri confronti è
impostato nel dono, assolutamente immeritato e gratuito. Il dono si
manterrà tale, mai potrà diventare un possesso. Se così,
malauguratamente, dovesse accadere, sarebbe come svilirlo e svuotarlo
del suo maggiore elemento: l’amore. E poiché Dio è amore, sarebbe
svuotare e svilire Dio stesso.
Possiamo
sempre contare su questo amore in ogni momento e circostanza, anche
nelle situazioni di massimo degrado. Infatti, scrive san Paolo: “dove abbondò il peccato sovrabbondò la grazia, (il dono)” (Rm
5,21). Quando la persona ritiene di possedere il dono o di farne merce
di scambio, perdendo così la dimensione di gratuità contenuta in esso,
si distorcono gli autentici rapporti personali, familiari e sociali, con
le spiacevoli conseguenze facilmente immaginabili.
L’apostolo indica anche una via d’uscita dalla trappola del possesso: “Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare le vostre passioni”. In
primo luogo è importante chiedere. Evidentemente, chi già possiede non
chiede, ma difende quello che ha, e chi tende al possesso non chiede, ma
vuole, pretende, costi quel che costi.
C’è
anche un modo di chiedere libero dalla passione del possesso, che è il
modo corretto: mantenere il dono come tale nel trasmetterlo ad altri.
Infatti, il dono è donato per essere trasmesso. La trasmissione di esso
arricchisce, simultaneamente, chi lo riceve e chi lo dona, perché si
conserva intatto il carattere già indicato: l’amore. Più il dono è
trasparente, puro da ogni sentimento e desiderio di possesso o di
scambio, maggiormente, in questa trasparenza, come nella filigrana, si
percepisce la presenza di Dio.
È
quello che Gesù ha realizzato e continua a fare, attraverso la Parola e
i sacramenti, nella logica che il testo del vangelo di oggi presenta.
In
quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli
non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e
diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli
uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni
risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di
interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».
E,
preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse
loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie
me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».
Vangelo (Mc 9.30-37)
Gesù annuncia ai discepoli quello che gli accadrà: “Il
Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo
uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”. Non è solo un annuncio ma un insegnamento
-“Insegnava infatti ai suoi discepoli”-, ossia spiegava e motivava il perché di tutto, ma con scarso risultato.
Infatti, “Essi però non capivano queste parole e avevano timore a interrogarlo”. Non
capivano per almeno due motivi. Il primo è perché tutto ciò era
estraneo alle loro convinzioni e attese in merito alla figura del
Messia; anzi, attendevano tutto il contrario: un Messia trionfatore. Il
secondo motivo è che il loro interesse era distolto dalle parole di
Gesù; la loro preoccupazione, in sintonia con le attese, era quella che
poi manifesteranno a Gesù, quando chiederà loro di cosa stavano
discutendo per strada.
“Ed essi tacevano”,
percependo che i loro discorsi andavano in tutt’altra direzione
rispetto a quelli di Gesù e sentivano, per questo motivo, l’imbarazzo di
affrontare apertamente l’argomento. Infatti “
avevano discusso tra loro chi fosse il più grande” una volta che
Gesù avesse impiantato il regno, cominciando da Gerusalemme la notte di
Pasqua, con un movimento che avrebbe espulso i romani e purificato il
popolo, separando i degni dagli indegni,.
Impressionante è il rapporto di incomunicabilità fra Gesù e loro:
assistiamo a due prospettive completamente distanti. Diventa quasi
inspiegabile come Gesù poté mantenere il gruppo con sé, e i discepoli
restare accanto a un soggetto che continuamente li sorprendeva e li
sconcertava con le sue affermazioni, scalzando ogni loro attesa. L’unica
risposta, in nome di tutti, è l’espressione di Pietro, in occasione del
discorso sull’Eucaristia nella sinagoga di Cafarnao, in mezzo al grande
sconcerto:
“Da chi andremo, tu solo hai parole di vita eterna”.
I discepoli “avevano timore di interrogarlo”, come
se non volessero prendere atto di un evento ritenuto assurdo e
sconcertante, che avrebbe messo in discussione le attese e progetti che
erano alla base della loro condizione di discepoli. E’ una reazione
molto comprensibile: dal punto di vista umano non è facile né gradevole
trovarsi disorientati in tale modo.
Gesù non si sorprende della loro incomprensione. Con calma e padronanza di se stesso spiega e insegna loro: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”, rovesciando
il criterio comune. Non spiega come il rovesciamento di mentalità possa
veramente realizzare il guadagno del primo posto, sebbene si possa
comprendere che il servizio sia orientato alla realizzazione del regno
di Dio, perché tale è il fine della missione di Gesù.
E’
difficile comprenderlo per noi oggi, immaginarsi allora. Fuori
dell’orizzonte del dono e della gratuità - di cui sopra, nella seconda
lettura - non c’è modo di capire come il rovesciamento possa aver
successo. Solo dopo la morte e risurrezione di Cristo e per i suoi
effetti in chi accoglie il dono della sua vittoria sul peccato e sulla
morte, sarà chiaro come l’
“essere primo”, facendosi servitore di tutti per la causa del regno, prospetta una dimensione del tutto inimmaginabile alla mente umana.
Per
il momento Gesù chiede fiducia compiendo un’azione anch’essa
sorprendente: accoglie e abbraccia un bambino. Lo fa non tanto per
dimostrare la virtù insita nell’essere bambino, ma perché questo gesto è
dimostra la disponibilità ad accogliere chi non ha alcun peso nella
società. Infatti, a quei tempi, solo con la maggiore età - acquisita a
circa dodici anni, (vedi quando Gesù nel tempio dimostra di comprendere
la Legge) – si diventava cittadino e uomo a tutti gli effetti. Prima era
paragonato, dal punto di vista sociale, a uno schiavo ebreo ed era
preso in considerazione solo per la potenziale possibilità di divenire,
in futuro, un cittadino.
L’affermazione di Gesù “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me”
sicuramente lascia sorpresi gli uditori. Ritengo, quindi, che con essa
Gesù manifesti la coscienza di come, sul piano sociale, lui stesso abbia
un peso insignificante; sia per la sua provenienza dalla Galilea dei
gentili, sia per la sua umile condizione sociale, sia per non possedere
un particolare titolo o discendenza che potesse far valere: in altre
parole, Lui non era altro che un Nazareno, per giunta figlio di un
falegname!
Infatti, Gesù riprende il tema dell’accoglienza, ma la riferisce a se stesso e, più ancora, al suo rapporto con il Padre “e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”. Gesù
sa di non contare, come non conta il bambino preso con sé, ma chiede ai
suoi uditori un rovesciamento di atteggiamento, quello di essere messo
in mezzo a loro - al centro dell’attenzione - accolto e creduto, come si
accoglie con cuore aperto chi si abbraccia.
Solo in questo modo, e anche oggi, si capirà il senso profondo e vero della sua affermazione e cosa significa “essere il primo”, partecipando della vita eterna.
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