domenica 12 marzo 2017

IL PIANETA DELLE ARMI

Il pianeta delle armi Un pianeta armato fino ai denti, come non succedeva dai tempi della Guerra fredda: il riarmo globale non ha soltanto il volto di Donald Trump o l’espressione glaciale di Vladimir Putin, ha lo sguardo allucinato di tanti nuovi nazionalisti, a partire da quelli dei Paesi asiatici, che si avviano a diventare il mercato più florido per il commercio di strumenti di morte.
Negli ultimi cinque anni l’aumento di spesa in sistemi d’arma “pesanti” è stato vertiginoso: i dati del Sipri, l’istituto svedese che ne registra l’andamento, parlano di una crescita dell’8,4 per cento, livello che non si raggiungeva dal 1990, quando ancora il mondo era diviso in blocchi contrapposti, prima dello scioglimento dell’Urss. E l’aumento è più significativo perché la spesa globale resta stabile. Questo vuol dire che la quota destinata agli armamenti cresce rispetto alle spese di gestione: personale, addestramento, eccetera. Nei fatti, è un segnale inquietante. Gli acquirenti più scatenati sono India, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Cina e Algeria, che da soli hanno comprato il 34 per cento di tutte le armi vendute. Asia e Oceania hanno rastrellato il 43 per cento, in Medio Oriente è finito il 29 per cento degli armamenti, l’Europa ne ha comprato l’11, America e Africa son rimaste a livelli più bassi. L’Italia è al 25esimo posto, con acquisti da Usa, Germania, Israele. È ovvio che gli acquisti internazionali non corrispondono agli investimenti: chi ha un apparato industriale immenso, come gli Stati Uniti, alimenta la macchina bellica senza necessità di affacciarsi sul mercato mondiale. In testa alla classifica delle vendite ci sono Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Germania, che hanno realizzato il 74 per cento del totale, con Usa e Russia che da soli raggiungono il 56 per cento. Negli ultimi cinque anni la Germania ha registrato una frenata (oltre un terzo di vendite in meno), mentre la Francia vede una leggera flessione (meno 5,6 per cento). Gli altri vanno a gonfie vele, con fatturati in crescita. L’Italia è all’ottavo posto, con il 2,7 per cento (nel quinquennio precedente era del 2,4). L’esame dei dati aggregati, con acquirenti e venditori assieme, dimostra che la vecchia logica dei blocchi ha lasciato tracce. Se Washington vende soprattutto ad Arabia, Emirati e Turchia, Mosca conta sugli acquisti di India, Vietnam e Cina. Pechino ha un mercato soprattutto asiatico, mentre per Parigi il denaro non ha odore: i primi tre clienti sono Egitto, Cina ed Emirati. Trasversale anche il mercato dell’Italia, che ha venduto soprattutto a Turchia, Algeria e Angola. Nel 2015 la spesa globale in armamenti ha raggiunto 1676 miliardi di dollari, con un lieve aumento rispetto all’anno precedente. La cifra equivale al 2,3 per cento del Prodotto interno lordo mondiale. Usa, Cina, Arabia Saudita, Russia e Gran Bretagna sono i Paesi che hanno investito di più. Gli Stati Uniti hanno ridotto leggermente la spesa, che resta però la più elevata del pianeta, pari a 596 miliardi di dollari. È il 36 per cento della spesa totale, e cioè è superiore secondo le stime del Sipri agli investimenti sommati dei dieci Paesi che seguono nella classifica. Fra le tendenze generali, la maggior spesa di Asia, Medio Oriente ed Europa dell’Est, e il calo degli investimenti nei Paesi con un’economia dipendente dal petrolio, legato al crollo dei prezzi del greggio. Secondo l’Osservatorio Milex sulle spese militari, il nostro Paese per il 2015 ha stanziato 22 miliardi di euro, che comprendono anche le uscite per il personale (stipendi e pensioni) e una quota di quelle per l’Arma dei carabinieri. L’Italia si attesta sull’1,18 del Pil (dati della Difesa, per Milex la quota è dell’1,4). Ma le cifre più significative, secondo l’Osservatorio, sono quelle dedicate ai sistemi d’arma: fra Difesa e ministero per lo Sviluppo economico, nel 2016 sono stati investiti in armamenti circa 5133 milioni di euro. Nel 2017 dovrebbero essere 5639: l’aumento di spesa in armamenti è di oltre mezzo miliardo.

 ( articolo di GIAMPAOLO CADALANU,  tratto da Repubblica 6 Marzo 2016)

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